Ribelli, Pirati e Tentacoli: La Storia di LucasArts

Questo è la preview del libro Ribelli, Pirati e Tentacolo: La storia di LucasArts, capitolo V.


Lucasfilm ha appena concluso il contratto con Atari per la creazione del Games Group e Peter Langston è il candidato numero uno per costituire la squadra. Dopo qualche resistenza, accetta e inizia a costruire il suo team.


Il capitolo termina alla fine del 1983, quando il Games Group è pronto per iniziare a sviluppare i suoi primi giochi.



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Seconda parte - Giochi usa e getta

Assemblare la squadra



"Star Wars incassò una quantità di denaro sorprendentemente alta e George — invece di fare come di consueto, cioè comprare terreni per poterli dichiarare come spesa e quindi evitare di pagare le tasse, come sembra facciano molte persone a Hollywood — decise invece di finanziare qualcosa chiamato Computer Division."


Peter Langston



“Prima avete visto cosa si può fare con computer da un milione di dollari. Ora diamo un’occhiata al tipo di animazione che può essere creata con un personal computer che costa solo poche centinaia di dollari. In questa seconda parte del libro vi mostreremo come portare l’entusiasmante mondo dell’animazione direttamente a casa vostra. Se avete un microcomputer ATARI [...] sarete in grado di trasformare il vostro computer in una fantastica macchina per l’animazione.”


David Fox



Nei primi anni ’80, Peter Langston era il più vecchio veterano ancora in attività dell’industria dei videogiochi. Nato nel 1946, Langston aveva avuto il suo primo contatto con i computer nel secondo anno di studi di chimica al Reed College a Portland, nell’Oregon. Qui, dopo aver assistito all’ultima parte di una lezione di Fortran, era stato conquistato dai computer, cosa che lo aveva spinto a trascorrere sempre più tempo nel laboratorio, perforando schede Hollerith e inserendole in un computer IBM 1620 fino a tarda notte. Col tempo, il suo interesse per l’informatica non aveva fatto altro che crescere: dal Fortran era passato a studiare il linguaggio macchina e infine il linguaggio assembler.


Quando l’università aveva dismesso l’IBM 1620 per passare a un nuovo IBM 1130, grazie alla sua esperienza e alle sue vaste conoscenze, Langston aveva dato una mano nella redazione di un documento con l’indicazione dei possibili usi accademici del computer ed era stato poi incaricato di svolgere la funzione di responsabile studente del nuovo Computer Center. Al termine degli studi di chimica, lo studente aveva accumulato un’impressionante competenza in informatica e programmazione, tale da superare quella dei suoi docenti, cosa che gli creò qualche problema al momento di conseguire la laurea.


Langston: “A Reed era obbligatorio scrivere e discutere una tesi per conseguire la laurea triennale. Io volevo che il tema della mia tesi ruotasse attorno all’informatica applicata alla chimica, ma non riuscivo a trovare un relatore perché, come disse un professore di chimica: ‘Tu sai già più di me sui computer; come potrei guidarti?’ Un altro professore di chimica aveva appena acquistato un computer analogico e disse che mi avrebbe fatto da relatore se avessi impostato la mia tesi sull’uso dei computer analogici in chimica. Così imparai a programmare i computer analogici e scrissi la mia tesi su questo argomento.”


Subito dopo la laurea, lo stesso docente che gli aveva fatto da relatore ottenne un cospicuo finanziamento da parte della National Science Foundation (NSF) per la costruzione di un computer analogico. Langston venne quindi assunto nel piccolo team di quattro ricercatori incaricati di portare a termine il progetto e, quando il computer fu poi ceduto all’Evergreen State College, una nuova università statale a Olympia, Washington, Langston seguì la sua creazione, curandone la manutenzione e il funzionamento. La sua posizione all’Evergreen non si esauriva nella gestione tecnica del computer, perché gli venne chiesto anche di insegnare a piccoli gruppi indipendenti di studenti.


L’Evergreen era dotato di un sistema in time-sharing HP 2000. Provvisto di interprete del linguaggio BASIC (con dialetto HP), il sistema funzionava tramite telescriventi: gli operatori digitavano i programmi tramite tastiera, li memorizzavano nel mainframe per poi lanciarne l’esecuzione, leggere l’output su carta stampata e inserire l’input sempre tramite tastiera. Considerando che solo qualche anno prima, quando Catmull aveva iniziato a studiare programmazione, gli studenti in genere non avevano ancora accesso ai computer e le lezioni erano quasi completamente teoriche, su carta, il sistema di mainframe più telescriventi rappresentava un grande progresso. In un’epoca in cui i computer costavano ancora decine di migliaia di dollari, i sistemi in time-sharing erano i più economici a disposizione per contesti in cui più utenti dovevano operare contemporaneamente e, pertanto, erano molto diffusi negli istituti educativi. Grazie al time-sharing numerosi allievi potevano studiare contemporaneamente, digitando programmi, eseguendo il codice e facendo debugging dei loro programmi.


Lavorando con gli studenti, Langston si rese conto rapidamente che il modo migliore per catturare l’attenzione dei giovani meno interessati alla programmazione era mostrare loro i primi giochi per computer. Il risultato era quasi sempre lo stesso: gli studenti si divertivano e poi si appassionavano alla programmazione, elettrizzati dalla possibilità di creare altri giochi, spesso partendo da quelli già disponibili e appena provati. Fu così che, tra il 1972 e il 1974, Langston e i suoi studenti misero a punto un gran numero di giochi, tra cui Empire, Convoy, Oracle, Galaxy, Wander, Beasts, Gomoku, Bolo, Dune, FF, Race, SPBT e Today.


In un modo o nell’altro, erano tutti software notevoli — a volte per l’originalità e l’anticipo su altri giochi simili, altre per la grande utenza che riuscirono a raggiungere — e molti riuscirono anche a trovare la strada per arrivare in altri laboratori, tanto più che spesso fu lo stesso Langston a rilasciare i programmi nella versione per Unix e a contribuire alla loro diffusione.


Wander, per esempio, era un software che integrava contemporaneamente un’avventura testuale dotata di parser per interpretare l’input del giocatore e generare l’output, ma anche un tool di sviluppo per permettere ai giocatori di creare nuove avventure. Il funzionamento del gioco non era molto diverso da quello del ben più famoso Advent: il giocatore doveva digitare comandi come “South” per spostarsi a sud oppure “Take credit card” per afferrare una carta di credito, e il programma, cercando nelle tabelle definite dal designer dell’avventura il relativo output in base all’oggetto, all’azione usata e alla stanza in cui era eseguita, generava il testo che informava l’utente sul risultato dell’azione. Pur essendo stato sviluppato a partire dal 1972, ovvero due anni prima di Advent, Wander non aveva avuto lo stesso successo ed era rimasto a lungo dimenticato, anche per via del fatto che Langston non aveva diffuso liberamente il codice sorgente come invece avevano fatto William Crowther e Don Woods. A lungo Wander venne ritenuto perso per sempre, finché un amico di Langston, nel 2015, non si accorse di averne conservata una copia nella sua corrispondenza.


Non tutti gli altri giochi, però, sopravvissero alla piattaforma e all’ambiente di sviluppo in cui erano stati creati. Di Galaxy, per esempio, non fu più trovato il codice sorgente, e quel poco che si sa sono alcune informazioni frammentarie, tra cui i ricordi dello stesso Langston, che lo descrisse così: “Galaxy fu una sorta di precursore di Empire. In quel gioco si trattava di fare esplorazioni usando astronavi, ed era una simulazione piuttosto realistica, il che ovviamente significava che non era per nulla divertente, perché ci voleva tantissimo tempo per fare qualunque cosa. Così cercai di accelerare il tempo, e poi mi resi conto che andava ristretto un po’ il campo. Uno dei miei studenti disse: ‘Perché non lo fai semplicemente su un singolo pianeta?’ Aveva in mente l’idea di modellare una civiltà, così creò qualcosa chiamato Civil — che naturalmente aveva solo cinque lettere, quindi pensai che non potesse essere quello giusto, no? E fu a quel punto che realizzai Empire.”


Al contrario di Galaxy, Empire sopravvisse, almeno in parte, alla sfida del tempo. Il suo sviluppo, successivo a Galaxy, iniziò nel 1972 all’Evergreen, sempre in BASIC sul mainframe HP 2000. Di questa prima versione, però, nonostante fosse già molto apprezzata e giocata, il codice sorgente non venne distribuito — “perché nessuno me lo chiese”, spiegò successivamente Langston — e il software andò perduto per sempre quando il computer venne dismesso. La stessa cosa, però, non accadde alle versioni successive.


Langston: “Lasciai l’insegnamento [all’Evergreen] perché il trio di musica acustica in cui suonavo, chiamato Entropy Service, aveva raggiunto il soffitto di cristallo nel Pacifico nord-occidentale e aveva bisogno di trasferirsi in un luogo dove potessimo essere percepiti come la nuova band del momento arrivata da fuori città. Così ci trasferimmo nell’area di Boston/Cambridge e iniziammo a suonare lì. Mentre affrontavamo gli alti e bassi tipici di un gruppo musicale agli inizi, fui assunto dall’Harvard College Observatory e dallo Smithsonian Astrophysical Observatory per scrivere software per loro e venni nominato programmatore di sistema presso l’Harvard Science Center.”


Qui Langston tornò a lavorare sul suo Empire, questa volta programmando in Unix C su un PDP-11/45, durante la sua permanenza all’Università di Harvard, tra il 1974 e il 1977, come programmatore e analista di sistema allo Harvard Science Center presso l’istituto Radcliffe. Dopo aver distribuito le prime versioni del suo gioco, tuttavia, il programmatore ebbe un ripensamento: quando osservò le modifiche introdotte da alcuni giocatori e aspiranti programmatori, cambiò idea, smise di distribuire il sorgente e decise di riprendere in mano personalmente lo sviluppo del gioco, che nel frattempo era evoluto drasticamente.


Dal momento che le prime versioni sembrano essere andate perdute e la memoria del suo ideatore è purtroppo frammentaria, non è possibile ricostruire con precisione lo sviluppo delle versioni di Empire, ma è probabile che la sua prima iterazione per HP 2000 fosse già in grado di generare proceduralmente una mappa casuale in base a parametri di partenza predefiniti dall’utente, permettere a più giocatori di competere per le risorse, sviluppare la propria fazione e arrivare anche alla guerra, se necessario. Nelle versioni successive, Langston continuò ad aggiungere meccaniche e funzionalità, tra cui un sistema di generazione del pianeta che aveva lo scopo di creare continenti verosimili generati considerando la tettonica a placche, un crescente numero di risorse da raccogliere e sfruttare, mezzi di combattimento e strumenti per gestire la diplomazia, gli scambi commerciali e, chiaramente, la guerra.


In mancanza del codice sorgente, attorno al 1978 diversi giocatori di Empire si misero al lavoro nel tentativo di decompilare o fare reverse engineering del gioco di Langston. Quest’ultimo, mosso a pietà dallo sforzo enorme fatto dai suoi ammiratori, decise quindi di donare loro il codice dell’ultima versione su cui stava lavorando. Le funzionalità di questa versione sono note proprio perché, quando lo sviluppatore pubblicò il sorgente, vennero create delle FAQ che furono poi pubblicate su USENET pochi anni più tardi: il generatore del terreno di gioco era in grado di creare una mappa quadrata di 128 caselle per lato (l’intero gioco era testuale o con caratteri semigrafici, compresa la mappa del mondo), con risorse da gestire, navi e aerei per condurre guerre tra 32 giocatori con un sistema di aggiornamento del gioco real-time ibrido, che ricalcavava lo stato della partita a richiesta del giocatore.


Questa versione divenne quindi il punto di partenza da cui si diramarono quelle create parallelamente da singoli e piccole squadre di programmatori, mentre Langston — poco prima di implementare le astronavi, utili per sbarcare su altri pianeti e inserirsi nelle partite di altri giocatori — decise di fare un passo indietro e lasciare lo sviluppo di Empire ai suoi fan più volenterosi.


Grazie anche al supporto di appassionati e aspiranti programmatori, Empire rimase in costante sviluppo per diversi anni, fino a giungere nell’era di Internet, riadattato per funzionare online con le nuove tecnologie. Nel corso dei decenni furono numerosissime le versioni create dagli appassionati del gioco di Langston, in genere differenti per dimensione delle mappe, gestione più complessa delle risorse, introduzione di nuovi mezzi di combattimento, alleanze e tecnologie da sviluppare per rafforzare la propria nazione. Una delle versioni di Empire venne giocata da Sid Meier, che ne fu così impressionato da trarre ispirazione per il suo Civilization del 1991.


Anche Oracle, un altro software il cui sviluppo iniziò nel 1972 sul mainframe HP 2000, percorse una traiettoria simile. Non si trattava di un vero e proprio gioco, ma - sotto le false sembianze di un algoritmo di intelligenza artificiale - di una sorta di applicazione interattiva. Il nome stesso del programma indicava chiaramente la natura dell’esperienza creata da Langston: l’utente poteva sottoporre al computer una domanda di qualsiasi tipo, per poi attendere la risposta, magari rispondendo, nel frattempo, a sua volta una domanda postagli dal computer. Così, all’insaputa dell’utente, il sistema smistava domande agli utenti in attesa di risposte e poi rispediva le risposte a chi aveva formulato la domanda, fingendo di aver trascorso il tempo riflettendo sulla questione.


Langston: “L’idea originale di Oracle è stata mia, e mi è venuta ispirandomi alle persone. Sai, quando raccontavi a qualcuno quanto fosse straordinario il computer — parliamo di un’epoca in cui la maggior parte delle persone non aveva alcuna esperienza diretta con un computer, magari lo aveva solo visto in un film — e se, mostrandolo, dicevi: ‘Sì, è fantastico, può risolvere ogni tipo di problema.’ Poi loro rispondevano: ‘Be’, chiedigli qual è il senso della vita’ o qualcosa del genere, per cui non eri affatto preparato. Mi venne in mente che un buon modo per gestire quelle situazioni sarebbe stato creare un sistema in cui ciascuno rispondesse alla domanda di qualcun altro, e che in qualche modo sembrasse fosse il computer a farlo. Questa era l’idea: dire, ‘Be’, è una gran bella domanda, ci dovrò pensare. Ma mentre ci penso, forse potresti rispondere a questa domanda per me.’ Poi la risposta veniva inviata per email alla persona che aveva fatto la domanda precedente, e così via. Trasferire quel concetto su Internet sembrava un’espansione ovvia.”


Lo sviluppo di Oracle trasse grande beneficio dal lavoro di Langston ad Harvard, dove, tra i numerosi incarichi di programmazione, venne impiegato anche per l’installazione di un sistema di messaggistica email sui computer Unix. Con l’uso delle email, una buona parte dello staff finì per trascorrere il proprio tempo dando risposte alle domande degli altri e ottenendo in cambio, il più delle volte, risposte basate su giochi di parole, paradossi, filosofia, sarcasmo e ironia.


Langston: “[Nel 1976] Dopo lo scioglimento della band tornai a New York (dove sono nato) e feci lavoro informatico per una società finanziaria su Madison Avenue, poi accettai un incarico per dirigere un nuovo reparto informatico presso un grande studio legale di Wall Street (200 avvocati associati e 50 partner) chiamato Davis Polk & Wardwell. Parte del mio contratto di lavoro prevedeva del tempo da dedicare ai miei progetti di giochi.”


Con un buon contratto di lavoro, che gli garantiva non solo il tempo libero per seguire i suoi interessi ma anche l’accesso ai potenti computer della compagnia, Langston si trattenne a New York per qualche anno, rimanendo un membro molto attivo e noto della comunità di utenti di Unix. I suoi giochi — e il suo Oracle — continuarono ad attirare utenti, sia all’interno della compagnia che da fuori. Avendo curato con attenzione l’ottimizzazione del codice, i programmi non occupavano che una piccola parte delle risorse dei computer della compagnia, ma il tempo e l’attenzione spesi da segretarie, impiegati e anche manager erano, al contrario, un fattore decisamente rilevante. Se ai tempi dell’Evergreen e di Harvard i giochi di Langston erano costati la carriera universitaria a diversi studenti, a New York non andò in modo molto diverso: nella memoria del programmatore rimase indelebile il ricordo di quella volta in cui un manager — trafelato per l’imminente attacco al suo impero — si presentò presso la sala computer con l’intenzione di togliere la corrente elettrica per interrompere la partita e salvare il suo stato.


Alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80, i programmi di Langston erano all’apice della loro popolarità: diffusi attraverso USENIX, avevano un gran numero di giocatori e di utenti appassionati di Oracle. Per via della fama ottenuta grazie ai suoi giochi, il nome di Langston era molto noto negli istituti di ricerca e nell’ambiente degli utenti di Unix, di cui facevano parte anche alcuni membri del Graphics Group al lavoro in Industrial Light & Magic, come Tom Duff. Per questo motivo, quando il management di Lucasfilm iniziò a valutare seriamente la possibilità di entrare nell’industria dei videogiochi, il nome di Langston venne messo tra i primi della lista dei possibili sviluppatori a cui affidare il nuovo gruppo di lavoro.


Secondo Langston, Lucasfilm non venne trascinata da Atari nell’industria dei videogiochi per via dell’effetto spettacolare del filmato in computer grafica di Star Trek, perché l’operazione era la naturale prosecuzione del primo investimento fatto da Lucas nel Graphics Group all’indomani dell’incredibile successo di Star Wars.


Langston: “All’inizio Star Wars fruttò una quantità sorprendentemente grande di denaro e George, invece di fare la solita cosa di comprare terreni per considerarlo come spesa e non pagare le tasse (cosa che sembra essere pratica comune a Hollywood), decise invece di finanziare qualcosa chiamato Computer Division. [...] Così, quando L’Impero colpisce ancora stava per essere distribuito, sapevano che ci sarebbe stato un grande afflusso di denaro. Avevano già finanziato la Computer Division, quindi cercavano un modo per utilizzare quei soldi in maniera utile. Nacque così l’idea: vediamo se ci sono altri modi per applicare questo approccio ad alta tecnologia all’industria dell’intrattenimento. A quel punto sembrava che i videogiochi fossero probabilmente la strada giusta. Credo che abbiano chiesto in giro all’interno dell’azienda chi dovessero assumere per guidare questo progetto, e il mio nome fu uno di quelli che vennero fuori perché la gente conosceva il mio lavoro sui giochi attraverso USENIX.”


Il filmato del dispositivo Genesis, quindi, aveva avuto il tempismo perfetto per far chiudere l’affare con l’esito migliore possibile per Lucasfilm: aveva spinto Atari ad addossarsi l’intero onere dell’operazione. La prima metà del 1982 aveva portato ottimi risultati alla sussidiaria di Warner, ma all’orizzonte si profilavano anche sfide minacciose per via della concorrenza sempre più agguerrita. L’investimento, pur ingente, di un milione di dollari praticamente a scatola chiusa, era però poca cosa in un periodo in cui il mercato sembrava capace di una crescita senza fine, tanto più che Atari aveva in corso molte altre operazioni per la creazione di console domestiche e portatili, videogiochi e arcade.


Dopo due film di successo, Lucasfilm era un brand formidabile, estremamente popolare tra i più giovani, e sembrava quindi essere un’ottima scelta per contrastare Coleco, Mattel e tutti i nuovi concorrenti, ciascuno alla ricerca di IP da sfruttare. Inoltre, per Lucasfilm, Atari era un partner commerciale molto importante, perché proprio mentre si discutevano i dettagli del contratto che avrebbe portato alla formazione del Games Group, la compagnia di Lucas aveva venduto i diritti per trasformare Indiana Jones in un videogioco per il VCS e, poco più tardi, sarebbe entrata in trattativa per E.T. di Spielberg, di cui era produttrice.


Quando l’offerta di dirigere il Games Group giunse a Langston, il programmatore fu colto completamente di sorpresa. Ormai stabilitosi a New York, con un buon lavoro per lo studio legale che gli permetteva senza troppi problemi di far funzionare i suoi programmi sul computer aziendale, Langston trovò interessante la proposta, anche perché i giochi per computer erano stati una sua passione alla quale aveva dedicato molto tempo ed energie. Tuttavia, la prospettiva di doversi spostare dall’altra parte degli Stati Uniti, in California, a Marin County, fu sufficiente a spingerlo a declinare l’offerta.


Secondo Langston, dopo aver incassato il suo rifiuto, i reclutatori di Lucasfilm passarono al setaccio i numerosi contatti di Catmull. Grazie alla sua politica di pubblicazione dei paper e di condivisione dei risultati ottenuti nelle sue ricerche, il leader del Graphics Group era molto famoso in tutti gli Stati Uniti, ma, curiosamente, questo non bastò per assicurargli di trovare in fretta un candidato idoneo e disposto a mettersi a creare giochi. All’interno della comunità dei programmatori ed esperti di computer, infatti, lo sviluppo di videogiochi era visto come un ripiego: un lavoro di seconda categoria, poco serio e senza grandi prospettive di crescita. Così, la ricerca tornò al punto di partenza: l’esperto di Unix di New York.


Langston: “Credo che la risposta universale fosse qualcosa del tipo: ‘Be’, sembra molto divertente, ma non è un vero lavoro, e in quel modo non guadagnerai mai soldi.’ Così tornarono da me e mi chiesero: ‘Sei assolutamente sicuro di non voler fare questo?’ E, in vari modi, resero impossibile resistere. Così accettai il lavoro.”


Per portare avanti il progetto aveva bisogno di un team, ma con Catmull, Langston condivideva diverse posizioni filosofiche su come organizzare la produzione dei software, su come assemblare la squadra, su che genere di sviluppatori avesse bisogno e persino sull’uso dei sistemi Unix, di cui il Graphics Group era già dotato. Langston e Catmull non volevano reclutare tra i designer esperti, ma preferivano cercare programmatori dalle competenze straordinarie per creare il primo nucleo e gettare le fondamenta della divisione videogiochi.


La prima assunzione, in verità, non richiese alcuna ricerca, ma avvenne per caso, poco dopo l’arrivo di Langston a Marin. Fu frutto della notorietà e dell’attrazione che il Graphics Group esercitava nel settore degli esperti di computer grafica di tutto il Paese, oltre che dell’incredibile forza di richiamo di Lucasfilm su milioni di giovani e adulti che avevano visto Star Wars al cinema.


Nato il 30 dicembre 1950 a Los Angeles, California, già da giovanissimo David Fox si era interessato all’animazione. L’occasione per iniziare a fare pratica da solo era giunta per caso, quando aveva scoperto dove i tecnici degli studi di Hanna-Barbera — che si trovavano vicino a casa sua — avevano l’abitudine di smaltire i rodovetri non più utilizzati dei loro film. Il giovane aveva quindi recuperato alcune scatole di materiali, per lo più contenenti rodovetri dei personaggi della serie The Flintstones, per poi iniziare a cercare di creare dei film usando la tecnica dello stop motion, ovvero fotografando fotogramma per fotogramma le animazioni che riusciva a creare con i materiali a disposizione. Proprio come Alexander Schure, Fox si era reso conto che il procedimento era molto meno interessante, e decisamente più noioso, di come se l’era immaginato.


Il primo incontro di Fox con i computer era avvenuto poco dopo, durante gli anni della High School, quando il giovane aveva partecipato a un corso organizzato presso il laboratorio della vicina università. Il linguaggio insegnato era il Fortran e gli studenti erano chiamati a programmare perforando delle schede che andavano poi caricate nella macchina nel corretto ordine perché il sistema potesse eseguire il programma, sempre sperando di non aver commesso errori.


Fox: “È stata un’introduzione interessante. È stato però per lo più frustrante a causa della tecnologia e del fatto che probabilmente avevo errori di sintassi nelle schede perforate, oppure errori logici in seguito. In pratica ti danno un problema come ‘crea un programma che stampi un calendario’ o simile, e consegni una pila di schede perforate. Ogni scheda contiene una singola riga di comando e deve essere ovviamente nell’ordine corretto. Poi la dai all’operatore, viene messa in coda e forse eseguita durante la notte; il giorno dopo torni e ottieni una stampa di tutti gli errori di sintassi se il programma non è stato eseguito. Quindi devi ridigitare quelle schede e, se alla successiva esecuzione gli errori di sintassi sono tutti corretti, ottieni l’output del programma — che invariabilmente ha un errore logico — per cui devi rifare tutto. In pratica c’è almeno un giorno di attesa per ogni modifica che fai.”


Nonostante l’estrema laboriosità e la lentezza del processo di programmazione, Fox rimase impressionato dall’esperienza, tanto che, appena giunto all’UCLA, frequentò un altro corso che risultò molto simile al precedente, tranne per il fatto che, invece delle schede perforate, il computer operava con un nastro continuo. In verità, dal suo punto di vista di utente, Fox non ebbe molti vantaggi nel passaggio dalle schede al nastro perforato.


Fox: “Quindi, invece di tante schede, hai un lungo nastro di carta che perfori con una telescrivente perforatrice. E se lì commetti un errore di sintassi, devi far scorrere di nuovo l’intero nastro fino a quel punto, correggere l’errore e poi far riprendere la battitura.”


Sempre negli anni dell’università, Fox aveva avuto anche il suo primo contatto con gli arcade prima e con i videogiochi dopo. Alla fine degli anni ’60, prima dell’arrivo di Pong, gli arcade erano apparecchiature elettromeccaniche che funzionavano con giochi di luce, effetti ottici creati da specchi e parti meccaniche in movimento, come rulli che avvolgevano instancabilmente teli su cui erano disegnati gli sfondi dei campi di battaglia aerea o cinghie che trascinavano siluri in miniatura. Uno degli arcade preferiti del giovane studente — tanto da rimanere nella sua memoria anche a decenni di distanza — era Sea Wolf, il cabinato creato dal designer americano Dave Nutting e basato su Periscope della giapponese Namco.


Fox: “Vedi all’orizzonte qualcosa che sembra una nave. Devi colpirla con un siluro e, quando premi il pulsante, si avvia un motore e una luce scorre fuori dallo schermo. Se azzecchi il tempo, potresti vedere una luce rossa lampeggiante. Ma è tutto meccanico: non c’erano computer.”


Alla Stanford University, invece, era tutta un’altra storia. Fox ci finì durante un’uscita didattica, quando cambiò corso di studi. Arrivati all’università, gli studenti fecero un giro delle strutture scolastiche, laboratori compresi, e, quando il gruppo arrivò allo Stanford Research Institute, Fox ebbe la sua prima occasione di vedere un videogioco e persino di provarlo di persona.


Fox: “Mostravano cosa stavano facendo con i computer e uno dei sistemi aveva un CRT collegato a un minicomputer che eseguiva Spacewar!. Potevi sederti alla console ed era subito interattivo: premevi i tasti per dirigere la tua nave e sparare piccoli puntini dal davanti. La nave era un piccolo triangolo o una forma simile. Non credo ci fosse audio, ma l’immediatezza dell’interattività mi aprì gli occhi — un momento ‘aha’: wow, questo è davvero divertente, pensai.”


Eppure, la sua fascinazione nei confronti dei computer, della programmazione, dell’ingegneria e dei videogiochi sfumò di fronte alle scelte di vita successive. Dopo tre anni trascorsi all’UCLA, Fox mise da parte questi interessi, si spostò alla Sonoma State University e si dedicò agli studi in psicologia. Ottenuto un BA, aprì uno studio, iniziò a praticare counseling a singoli e piccoli gruppi, e per qualche anno i computer rimasero fuori dalla sua vita, almeno fino a quando il progresso tecnologico non rese possibile la progettazione e la costruzione dei primi computer domestici creati da hobbisti.


Fox: “C’era un club di informatica amatoriale che si riuniva a Stanford, a circa un’ora e mezza da casa nostra, e ci andai con un amico. Ricordo che c’erano forse due o trecento persone nell’auditorium — credo fosse un’aula magna — e davanti c’erano persone che facevano dimostrazioni e parlavano dei progetti che stavano realizzando con i microcomputer, costruendo kit o inventandone di nuovi. Mi pare che il moderatore del club fosse Lee Felsenstein. Era il luogo dove persone come Steve Jobs e Steve Wozniak venivano a mostrare su cosa stavano lavorando. Tutti erano incredibilmente entusiasti, ma io non capivo davvero il linguaggio che usavano. Non c’era Google Translate per aiutarmi a comprendere i termini tecnici e informatici di cui parlavano. Quindi era un po’ come ascoltare persone che parlavano di qualcosa di cui capivo solo alcune parole, mentre la maggior parte mi sfuggiva completamente.”


La commercializzazione dei primi microcomputer coincise con un momento importante della vita personale e familiare di Fox. Sua moglie, Annie, aveva appena perso il lavoro e lui, dopo un paio d’anni trascorsi a fare counseling, aveva iniziato a sentire la necessità di dare una svolta alla sua vita, perché cominciava ad avvertire una crescente insoddisfazione nei confronti della lentezza con cui la sua attività di counselor produceva cambiamenti nel mondo circostante. Le persone che si rivolgevano al suo studio facevano fatica a trovare la propria strada e il processo era lungo e laborioso. Per questo motivo, a Fox non sembrava di fare la differenza. Voleva fare di più, e più velocemente: desiderava cambiare la vita delle persone in meglio a un ritmo che il counseling non poteva produrre, ma che i computer — sempre più veloci, economici, semplici da usare e dalle potenzialità in costante crescita — potevano forse rendere possibile.


Fox: “Immaginavo una sorta di Disneyland interattiva, come un’esperienza immersiva da parco a tema — qualcosa delle stesse dimensioni di un parco divertimenti, ma totalmente interattivo. L’idea era che, vivendo quell’esperienza o partecipandovi, si potesse imparare qualcosa su te stesso. Magari avresti ottenuto una ‘vittoria’ capace di darti una soddisfazione emotiva, oppure avresti fatto qualcosa che non pensavi di poter fare — qualcosa che ti spaventava — in modo che, attraverso quel processo, qualcosa in te cambiasse e influenzasse la tua vita in seguito. Mi resi conto che tutto questo era ancora molto di là da venire. Pensavo fosse molto più vicino di quanto poi si rivelò essere. Ma ci dicemmo: ‘Okay, come facciamo ad arrivare a quel punto?’, e così tornammo idealmente al presente e cominciammo a immaginare qualcosa che coinvolgesse i computer.”


Frequentando l’Homebrew Computer Club a Menlo Park, in California, Fox si era reso conto che, di computer, nonostante i corsi scolastici, non sapeva abbastanza. Immaginò di poter recuperare il tempo perso creando un’attività collegata all’uso dei computer e che, in qualche modo, sfruttasse le doti di insegnante di sua moglie e la sua esperienza di counseling. Non voleva aprire un negozio di computer, perché il suo scopo non era vendere macchine, ma imprimere un cambiamento positivo nella vita delle persone usando i computer. Per questo motivo, alla fine, i due coniugi decisero di provare la vita del no-profit.


Con un ingente finanziamento da parte di un amico facoltoso — 50.000 dollari per comprare i computer necessari e sistemare i locali della biblioteca di Marin, allora inutilizzata — i due coniugi si misero all’opera. Superata la prima difficoltà economica, c’era da scegliere quali computer acquistare. Era l’estate del 1977 e sul mercato si trovavano diversi microcomputer, alcuni lanciati qualche anno prima, come l’Altair 8800, disponibile dalla fine del 1974, e il suo clone, l’IMSAI 8080, oppure il Sol-20 Terminal Computer, progettato e commercializzato nel 1976 dal moderatore del club di computer, Lee Felsenstein. Erano macchine grossomodo simili, che condividevano alcune caratteristiche chiave come l’utilizzo del microprocessore Intel 8080, l’architettura basata sullo standard S-100 e la possibilità di acquistarle in kit di assemblaggio (scelta più economica, ma che presupponeva una buona manualità da parte dell’acquirente, ideale per gli hobbisti che ne sapevano abbastanza per montare un computer, ma non erano in grado di progettarlo e costruirlo da soli) oppure preassemblate. Inoltre, per ciascuna di queste piattaforme erano disponibili interpreti del linguaggio BASIC, pensato proprio per i principianti e decisamente più semplice di altri linguaggi di programmazione.


C’erano anche computer più recenti, tra cui il secondo microcomputer prodotto a Cupertino da una compagnia di nome Apple. Per valutarlo, Fox si recò di persona negli uffici del produttore e finì per parlare con le sue due persone il cui nome era ben noto nell’Homebrew Computer Club: Steve Jobs e Steve Wozniak. I due si prodigarono a lungo nel tentativo di spiegargli i motivi per cui avrebbe dovuto scegliere il loro Apple II rispetto alla concorrenza. Immaginando che la maggior parte degli utenti si sarebbe recata in biblioteca per poter usare i computer per la videoscrittura, Fox però non fu particolarmente convinto del computer di Apple, perché, nella sua versione del 1977, era incapace di visualizzare a schermo caratteri minuscoli. Alla fine, quindi, optò per acquistare un primo lotto di Sol Terminal Computer con cui avviare i corsi.


Quando le porte della biblioteca aprirono, già con la prima folla di 750 utenti entusiasti, Fox e la moglie scoprirono che ad attirare il pubblico non erano tanto i programmi e la possibilità di fare videoscrittura, quanto i giochi per computer. Pagando un dollaro e mezzo per ogni ora, gli utenti del Marin Computer Center potevano digitare i primi programmi resi disponibili tramite listati pubblicati su riviste specializzate e provare a giocarli, oppure cimentarsi nella programmazione, magari dopo aver seguito uno dei corsi tenuti dai due fondatori del centro. Il pubblico era variegato: c’erano giovani elettrizzati dalla possibilità di provare per la prima volta un computer o spinti dalla curiosità instillata dai film e dalle serie TV di fantascienza dell’epoca, tra cui ovviamente avevano un posto di primo piano Star Trek e Star Wars, ma anche adulti che volevano apprendere l’uso dei computer un po’ per interesse personale e hobby e un po’ per possibili applicazioni professionali. Invariabilmente, tutti erano attratti dai giochi, soprattutto i più giovani.


Fox: “Se dovessi rifarlo, sceglierei sicuramente l’Apple II, perché — in base all’uso che veniva fatto del centro di informatica che avevamo aperto — di gran lunga l’attività principale era quella dei ragazzi che giocavano. Programmare in Applesoft BASIC sarebbe stato molto più semplice, dato che era già residente nel sistema; non avremmo dovuto caricarlo ogni volta da una cassetta audio, come invece facevamo con il Sol-20. Tutto sommato, avrebbe avuto molto più senso, ma allora non sapevamo esattamente come il centro sarebbe stato accolto e cosa le persone ne avrebbero fatto.”


Oltre al pubblico che arrivava alla spicciolata, c’erano intere classi scolastiche che arrivavano per provare i computer. Per loro, dopo aver catturato l’attenzione con i giochi, Annie si dedicava personalmente a insegnare programmazione attraverso corsi di PILOT.

Annie Fox: “I bambini adorano i videogiochi e noi abbiamo usato i giochi con grande successo per introdurre i ragazzi (di tutte le età) alle meraviglie dei microcomputer. Ora, chiunque abbia passato un po’ di tempo con i videogiochi sa che è molto raro trovarne uno che valga la pena di essere giocato una seconda o terza volta dai ragazzi più brillanti. Così abbiamo scoperto che fornire ai ragazzi gli strumenti con cui possono creare i propri giochi li affascina completamente. A quel punto stanno davvero usando il computer in modo creativo. E la novità dell’esperienza è limitata solo dalla loro immaginazione. Quando i ragazzi che hanno seguito i nostri corsi tornano al Centro di Calcolo, spesso passano più tempo a programmare giochi che a giocarci. Dopo che hanno imparato a programmare, sentono che programmare è più divertente; con PILOT, hanno davvero la sensazione di ‘sapere come si fa’.”


Vista la popolarità dei giochi, appena fu possibile fare un nuovo investimento, i coniugi Fox ampliarono il parco macchine comprando anche altri computer, come un Equinox-100, un Tandy TRS-80, un Commodore PET, un Apple II e un IMSAI VDP-40, arrivando ad avere in totale quattordici computer per la metà del 1978. Comprarono persino un costosissimo hard disk, sul quale venne memorizzato un parco software di 150 programmi ai quali gli utenti del Computer Center potevano accedere velocemente tramite un’interfaccia di caricamento programmata da David ed evitando i lunghissimi caricamenti da cassetta, oppure di dover digitare di persona i listati. Di tutto questo software, i giochi erano la maggior parte, provenienti per lo più dai listati stampati nelle newsletter e pubblicati sui giornali, ma c’erano anche i primi giochi commerciali, come le avventure testuali di Scott Adams, che l’autore distribuiva personalmente tramite vendita per corrispondenza.


Come in altre parti degli Stati Uniti, anche a Marin le avventure di Adams furono molto apprezzate, ma il problema per gli utenti del Marin Computer Center era che il programmatore, almeno inizialmente, le aveva sviluppate programmando in Level II BASIC per TRS-80, e c’era quindi un solo computer in grado di eseguirle, a meno di non effettuare il porting per gli altri sistemi disponibili.


Fox: “Convertimmo alcuni dei primi giochi di Scott Adams per Apple II e macchine CP/M e, nel farlo, scrivemmo un software di conversione che chiamammo Apple Spice. Adventure International lo vendette per noi. Era un’estensione in assembly del BASIC fornito con gli Apple II, che dava loro la stessa funzionalità dei computer RadioShack su cui girava il codice originale di Scott. Invece di riscrivere tutto il codice, aggiungemmo nuove funzioni al linguaggio. Facendo questo, potevo smontare i giochi degli altri, studiarli, trovare bug e proporre miglioramenti. È stato difficile imparare da autodidatta osservando il lavoro altrui.”


L’occasione fu ottima per Fox per iniziare a capire come erano fatti i giochi dei primi pionieri dell’industria e per prendere familiarità con i microcomputer più diffusi all’epoca. Il mercato era allora molto vivace, con la commercializzazione di un gran numero di sistemi spesso incompatibili tra loro, cosa che rendeva molto complicata la scelta di chi, come i Fox o lo stesso Adams, doveva cercare di capire dove il mercato stesse andando a parare, per intercettare il maggior numero possibile di utenti. La collaborazione tra Adams e il Marin Computer Center non durò a lungo, perché presto anche il celebre designer di avventure testuali si rese conto che la sua scelta iniziale — il TRS-80, individuato soprattutto per la sua economicità e la facile reperibilità sul mercato per via della sua vendita presso i negozi della catena Radio Shack — si stava rivelando la meno indicata per creare giochi per computer, cosa che lo convinse, appena possibile, a migrare su Apple II. Era su questa piattaforma che un numero sempre più grande di appassionati e utenti, interessati anche ai giochi, si stava spostando, andando a incrementare lentamente ma con costanza le vendite della compagnia di Cupertino che, pur rimanendo inferiori a quelle della concorrenza, erano divenute ormai sufficienti per rendere la piattaforma commercialmente interessante. Diversamente dal TRS-80 e dal Commodore PET, usciti entrambi nel corso del 1977, l’Apple II, pur non avendo i caratteri minuscoli, aveva capacità grafiche nettamente superiori, cosa che lo rendeva particolarmente interessante per chiunque volesse creare giochi.


Nel 1979, poi, anche Atari entrò nel mercato dei microcomputer, commercializzando il suo primo computer domestico. Basato sul microprocessore MOS 6502 — lo stesso al centro della console VCS, del Commodore PET e persino dell’Apple II — il microcomputer di Atari venne venduto in due modelli diversi: la versione più economica — dotata solo di 8 KB di memoria non espandibile, un solo slot di espansione e una scomoda tastiera a membrana integrata — era denominata Atari 400, mentre quella più costosa — con tre slot di espansione e una più comoda tastiera standard — aveva il nome di Atari 800. Memoria ed espandibilità a parte, le capacità hardware di entrambi i modelli erano identiche ed erano molto interessanti, perché i due computer erano dotati di grafica colorata ad alta risoluzione superiore a quella dell’Apple II e, diversamente dalla macchina di Wozniak, erano dotati di un chip audio, il POKEY, capace di generare suoni e musica. Si trattava di un grosso vantaggio su ogni altro computer, dal momento che la concorrenza aveva messo sul mercato dispositivi completamente muti oppure dotati di rudimentali capacità sonore, come l’Apple II che aveva un altoparlante interno pensato solo per emettere dei cicalii.


Quando i primi computer Atari entrarono nel Marin Computer Center, Fox si rese subito conto delle qualità di queste nuove macchine e non si trattava solo della grafica e del sonoro. Erano anche molto più leggere e facili da spostare, qualità decisamente utili per via del fatto che i due coniugi spesso si spostavano nelle scuole della zona per portare i computer direttamente agli studenti nelle loro classi. Inoltre, per promuovere il proprio computer, Atari aveva anche un’arma speciale nel suo arsenale.


Fox: “Ricordo che venne Chris Crawford, che lavorava in Atari — era una sorta di evangelista, ma anche l’autore di De Re Atari. Era praticamente la ‘Bibbia’ su come programmare sull’Atari. Venne a tenere una conferenza al centro, credo come parte degli incontri mensili che organizzavamo per il gruppo informatico locale. Dato che avevamo uno spazio piuttosto grande, ci incontravamo lì da noi. Fu allora che cominciai a interessarmi davvero a quella macchina.”


Con l’entusiasmo trasmessogli da Crawford, Fox iniziò a sperimentare la programmazione sul computer di Atari e ne fu conquistato. La rivelazione che ebbe fu la stessa di Schure, Catmull e Smith: con il computer si poteva fare grafica e la grafica al computer era molto meno noiosa da realizzare rispetto alla cel animation con gli scarti degli studi di Hanna-Barbera.


Mentre sperimentava su Atari, una sua vecchia conoscenza, Mitchell Waite, la persona che lo aveva introdotto all’Homebrew Computer Club, ebbe l’idea di scrivere un libro sull’animazione fatta con i computer. Non era la prima volta che i due collaboravano, perché un paio di anni prima Fox aveva scritto con Waite un libro sulla programmazione dal titolo Pascal Primer, pubblicato nel corso del 1981. Il libro sulla computer grafica era un progetto molto più ambizioso, però, perché i due decisero di dividerlo in due grosse sezioni: la prima — scritta principalmente da Waite — doveva trattare la storia della tecnologia fino ad arrivare agli sviluppi più recenti e le sue applicazioni nell’industria cinematografica, mentre la seconda — delegata a Fox — doveva essere più pratica e fornire al lettore le conoscenze di base per creare rudimentali animazioni in computer grafica sui sistemi reperibili sul mercato. Fox non ebbe dubbi: anche se avrebbe fatto qualche riferimento agli altri computer, tra cui Apple II, il suo testo avrebbe dovuto essere incentrato sul computer di Atari.


Fox: “Mitch scrisse la maggior parte della prima sezione, ma fui io a contattare la divisione computer relativamente nuova della Lucasfilm, di cui avevo sentito parlare. Probabilmente ne ero a conoscenza perché uno dei membri del nostro centro informatico, Gary Leo, lavorava alla Industrial Light & Magic e si occupava di computer. Mi aveva invitato a vedere il suo lavoro sul film Dragon Slayer, dove avevano collegato il modello di un drago a un Apple II e ideato una tecnica chiamata Go Motion.”


La sua visita presso il Graphics Group fu molto piacevole. I tecnici si prodigarono a mostrare le tecnologie che stavano sviluppando e permisero allo scrittore di vedere persino alcuni frammenti dell’animazione a cui stavano lavorando per il film di Star Trek. Di tutti i programmatori che Fox incontrò, con uno in particolare scoprì di avere una naturale affinità e simpatia: Loren Carpenter, l’autore di Vol Libre, l’animazione generata con il motore frattale che era stata riutilizzata nel video del dispositivo Genesis. I due si trattennero a lungo a disquisire sul progresso tecnologico e sul futuro dei computer, riflettendo sulla futura disponibilità di computer domestici con grafica ad alta risoluzione. Molte delle considerazioni fatte durante la fruttuosa conversazione finirono poi nel libro Animation Primer e Alvy Ray Smith si offrì persino di fare una revisione del testo per scovare eventuali inaccuratezze.


Un anno più tardi, terminata la stesura del testo che poi sarebbe stato pubblicato l’anno successivo, nel corso del 1983, a Fox giunse voce, sempre tramite Gary Leo, che la Computer Division stava creando un reparto per lo sviluppo di videogiochi.


Fox: “Dopo aver visto Star Wars nel 1977, lo stesso anno in cui aprimmo il nostro centro informatico — ed essendo anche nello stesso distretto in cui aveva sede la Lucas — volevo davvero far parte di quella compagnia. Ero completamente affascinato e impressionato da ciò che avevano realizzato, ma mi resi conto che non avevo alcuna competenza che potesse essere utile in quel contesto. Non ero un informatico, non sapevo nulla di grafica computerizzata a quel livello, e non ero nemmeno un modellista… avevo interesse per tutte quelle cose, ma nessuna esperienza professionale. Tuttavia, nel Games Group sì, lì avrei potuto contribuire.”


Memore della bella esperienza avuta durante la ricerca per la scrittura del suo secondo libro, non perse tempo e si candidò, presentandosi personalmente con una bozza del suo manoscritto. Il fatto che avesse messo al centro della seconda parte del volume il computer di Atari fece centro, perché il Games Group era stato creato con il finanziamento di Atari e con lo scopo di sviluppare giochi per le piattaforme della compagnia.


Fox: “Li chiamai e ottenni un colloquio. Avevano appena assunto la persona che sarebbe diventata il capo del gruppo — Peter Langston. Era l’inizio dell’estate del 1982. Un paio di mesi più tardi, dopo aver chiamato Peter continuamente ogni due settimane ed essermi sentito dire ‘No, risentiamoci tra due settimane’, finalmente ottenni il lavoro. Quindi fui il secondo a entrare.”


Un mese dopo l’assunzione di David Fox, Langston riuscì a trovare il terzo componente della squadra: David Levine. I due si conoscevano perché erano entrambi attivi e famosi all’interno della comunità USENIX, uniti dalla passione per lo sviluppo di giochi in ambiente Unix. Levine non aveva la creatività incontenibile di Langston che, prima ancora di entrare ufficialmente nell’industria, aveva già creato una decina di giochi non commerciali innovativi e di successo. All’attivo aveva solo una manciata di giochi, tra cui due cloni di Spacewar! e Pac-Man, eppure nel corso di poco meno di vent’anni, tra corsi di studio ed esperienze lavorative, aveva all’attivo un gran numero di risultati e primati importanti.


La sua prima esperienza lavorativa con i computer risaleva al 1972, quando era stato impiegato a Evanston, nell’Illinois, nel negozio Itty Bitty Machine Co. di Ted Nelson, dove aveva lavorato allo sviluppo del Videographic Display Generator, una scheda accessoria S-100 per Altair 8800. In suo onore, Nelson l’aveva chiamata “Levine Board”, l’aveva commercializzata nel suo negozio al prezzo di 500 dollari e ne aveva parlato anche nel suo libro The Home Computer Revolution del 1977: “La Levine Board è una scheda S-100 che offre una grafica animata di 256x192 pixel. A differenza del Dazzler, non rallenta il computer.”


Anche se più costosa di Dazzler — l’alternativa prodotta da Cromemco, una compagnia cofondata da un altro membro dell'Homebrew Computer Club, Harry Garland — la Levine Board aveva capacità grafiche sorprendenti, tanto più che, per funzionare, non sovraccaricava la CPU del microcomputer. Sfortunatamente per Levine, la sua invenzione non aveva avuto particolare successo commerciale ed era stata presto superata da alternative più economiche.


Levine: “Questa scheda fu resa obsoleta due anni dopo, quando Motorola, Inc. annunciò il primo controller grafico integrato su chip, che per coincidenza replicava quasi esattamente il mio progetto, la mia temporizzazione e le mie specifiche.”


Per quanto riguarda i giochi, invece, il primo contatto di Levine avvenne grazie al sistema PLATO, poco dopo aver progettato la Levine Board.


Levine: “Incontrai per la prima volta il sistema PLATO durante l’anno accademico 1977-78 all’Università dell’Illinois (UIUC) e diventai un giocatore itinerante di Empire, il mondo multiplayer di Star Trek a quattro squadre, e di Airfight, il simulatore di volo e combattimento in prima persona. Io e i miei amici giocavamo per lo più al CERL, il Computer Education Research Lab nel campus di ingegneria, dove, anche se c’erano due grandi stanze con molti terminali PLATO, non sempre se ne trovava uno libero. Durante il semestre primaverile ero iscritto all’Institute of Aviation dell’università e avevo accesso a un terminale PLATO poco utilizzato presso l’aeroporto locale (frequentato da studenti piloti, meccanici aeronautici e futuri controllori di volo). La tastiera del terminale PLATO aveva un involucro in metallo duro e tasti a molla molto rigida: erano praticamente indistruttibili. I due giochi multiplayer in tempo reale a cui giocavo richiedevano di imparare rapide sequenze di tasti. I giocatori più bravi imparavano a picchiettare su quelle rumorose tastiere con velocità e precisione, come fossero strumenti musicali. PLATO contava spesso più di mille utenti collegati in tutto il mondo, che giocavano insieme a titoli grafici con una latenza abbastanza bassa da rendere l’esperienza davvero divertente — decenni prima dell’arrivo di Internet.”


I terminali PLATO erano dotati di display al plasma monocromatici ad alta risoluzione, con un caratteristico colore arancione. Grazie al linguaggio TUTOR, gli insegnanti e gli studenti erano in grado di programmare lezioni interattive; in realtà, spesso queste erano dei veri e propri giochi, il più delle volte multiutente, in cui i giocatori si sfidavano in battaglie spaziali a squadre con Empire, combattimenti aerei con Airfight ed esplorazioni di dungeon con dnd e Oubliette. Levine, per via della sua precedente esperienza nella progettazione della Levine Board, fu molto colpito dalle potenzialità della rete di terminali e delle applicazioni multiutente — caratteristiche che avrebbe trovato poi anche nei sistemi Unix — ma non fu particolarmente impressionato dalla grafica dei terminali PLATO, che sfruttava un sistema tassellato con caratteri personalizzabili. Nondimeno, anche lui decise di cimentarsi nella realizzazione di un’animazione in computer grafica, provando a replicare sul terminale PLATO le comuni tecniche di animazione cinematografiche usate negli studi come quelli di Hanna-Barbera o Disney.


Levine: “L’animazione multiplanare era la tecnica utilizzata dai creatori di cartoni animati dell’epoca, in cui gli oggetti lontani si muovevano lateralmente in modo proporzionalmente più lento rispetto a quelli vicini, creando un contesto visivo tridimensionale per oggetti bidimensionali. La demo su PLATO che scrissi per un corso di informatica mostrava una vecchia locomotiva a vapore, con parti mobili visibili e finestre, che si muoveva lateralmente; attraverso e intorno ad essa si potevano vedere oggetti di sfondo posti a diverse profondità, ciascun livello muovendosi in modo proporzionale. All’epoca, questa era una novità assoluta su PLATO.”


Nel 1978, terminati gli studi, aveva ottenuto il brevetto di pilota e aveva trovato occupazione presso Gimix, dove aveva progettato una scheda video con set di caratteri programmabile per il mercato europeo; poi, nel 1980, era passato alla Mark Williams Company, giusto in tempo per incrociare anche lui Tom Duff nel suo periodo di bonifica per evitare azioni legali da parte di Alexander Schure. Proprio nel 1980 la Mark Williams Company aveva pubblicato Coherent, un sistema operativo clone di Unix, commercializzando prima la versione per i computer della Digital Equipment Corporation e, negli anni successivi, quella per IBM PC e altri personal computer dell’epoca.


Levine: “La Mark Williams Company fu una delle prime aziende di sviluppo software a clonare il sistema operativo Unix, che all’epoca non era di pubblico dominio. Il loro sistema operativo si chiamava Coherent ed era costruito da zero per essere compatibile a livello di codice con Unix V7. Durante la mia permanenza lì, ho imparato il linguaggio C, la programmazione a livello di sistema e la progettazione di compilatori. Ho scritto cloni degli strumenti Unix avanzati lex e m4, aggiungendo i miei miglioramenti, oltre a sviluppare una versione multiplayer in tempo di Spacewar!, basato su un driver caricabile a livello di kernel, e un popolare clone di Pac-Man.”


Arrivato al Games Group nell’autunno del 1982, Levine entrò a far parte della squadra come terzo e ultimo membro assunto in quell’anno. Langston sapeva di aver bisogno di più personale, ma da una parte c’erano le raccomandazioni dei suoi superiori — primo tra tutti Robert Doris, manager della Computer Division a capo sia del Graphics Group sia del Games Group — di non allargarsi troppo e di essere prudente con gli investimenti, e dall’altra la sua volontà di reclutare solo un certo tipo di sviluppatori. Le candidature non mancavano: come Fox, molti si erano fatti avanti quando avevano appreso dai giornali che Lucasfilm era entrata nell’industria dei videogiochi. I candidati che Langston voleva, però, erano quelli più portati a dirgli di no: come Catmull aveva fatto fatica a convincerlo — e aveva accumulato un buon numero di rifiuti dai programmatori nella sua cerchia di fiducia — anche Langston si era trovato in una situazione simile, tanto più che, come lui poi si trovò a riflettere scherzosamente, forse era stato un po’ troppo selettivo e aveva finito per mandare via candidati interessanti.


Con questo nucleo di programmatori — cui poi si sarebbero aggiunti altri due preziosi membri nel corso del 1983, Charlie Kellner e Gary Winnick — Langston si preparò a dare l’assalto al mercato, senza sapere però che il tempo giocava contro di lui e la sua squadra.